Nella concezione di Giuseppe Basili, ma soprattutto nella sua sensibilità d’artista, il colore è di per sé immagine; per questo dal suo alfabeto egli ha cancellato l’immagine tradizionale, cioè la figura, lasciando che il colore supplisca ad essa non per una ma per una moltitudine di “presenze”; esso esprime la pluralità, sia in termini quantitativi che di diversità, diventando così strumento d’una espressività estesa, in certo senso ecumenica: un esperanto che giunge a ciascuno.

Ed è questa l’idea che Basili ha dell’arte stessa: un medium che trascende i singoli linguaggi e si offre come “evento comunicativo” per un’emozione diretta e universale.

A questa sintesi Basili è arrivato partendo dall’osservazione-rappresentazione insistita del paesaggio, considerando che di esso il colore non è altro che un’immagine trasposta, interpretabile in senso globale: contemporaneamente luogo e dimora, corpo ed anima del visibile. Oltre il tempo e oltre ogni configurazione geografica, il paesaggio attraverso i suoi colori, è in grado di rappresentare l’immenso e il minimale, l’azione del tempo che trasforma e la perennità del suo esistere.

È stato scritto, giustamente, che nella visione di Basili c’e la sinopia della sua terra di origine, quella che ha sollecitato poeti ed artisti ad immaginare l’infinito; si può dire allora che quel paesaggio nell’astrazione della sua attuale visione non sia compreso? O non è vero piuttosto che quel paesaggio che egli rappresenta con il colore, ma anche con il gioco dei segni e la particolarità della composizione, non solo è visto ma anche posseduto ed offerto come “suo”?

Con tali scelte Basili ha voluto respirare a pieni polmoni la libertà che l’arte s’è conquistata nel corso del secolo appena concluso, e goderne in una condizione di totale autonomia.
In alcune sue composizioni che egli intitola Stripes il colore è disposto in bande diagonali così da ottenere un effetto cinetico ascensionale; una disposizione che sembra invitare a un’elevazione dell’animo. Si evince un’ intenzionalità espressa con motivazioni più che linguistiche psicologiche, che riguardano l’immaginario e l’habitat interiore. Come egli usa dire, dell’arte e delle sue rappresentazioni intende cercare l’anima. Ma è altresì vero che nelle opere più recenti si evidenzia, attraverso una materia-colore che si dispone a strati spessi e aggettanti, un desiderio di tattilità, un rilievo e una concretezza che invitano ad una vicinanza, a una “confidenza”, quasi a significare che l’opera non è solo visione, non solo immagine virtuale, ma anche corpo ed essere. Attraverso le serie Taches e Feedback, la riflessione giunge ancor più al segno ed introduce, indugiandovi con infinite varianti, il concetto di “relazione”: una dimensione esistenziale entro cui affiorano e convivono problematiche sociologiche oltre che morali.

Il colore, sempre più spesso e aggrumato, oltrepassa la sua ascendenza naturalistica per diventare voce e pensiero, grido alto e denuncia, esortazione e speranza.

Lucio Del Gobbo